La fine del campione australiano dopo una vita di eccessi, in pista e fuori.

Ci sono piloti, che non trovi negli albi d’oro come Campioni del Mondo, eppure solo a nominarli, agli appassionati si apre un sorriso, parte una parolaccia e scatta l’aneddoto. Questi piloti sono pochi, saranno 5 o 6 al massimo, perché essere ricordati è un onore riservato a pochi. Anthony Gobert, the “Go Show” è a pieno titolo uno di questi. Anzi, lui in tutto ciò che ha fatto, nel bene e nel male è andato oltre.

Chiedete ad un qualunque addetto ai lavori chi sia stato il pilota più forte della Superbike; vi farà sicuramente due nomi: il primo, eppoi subito dopo con un filo di amarezza e un largo sorriso “…Gobert!”. Aggiungendo subito: “peccato si sia bruciato… era il talento più cristallino della Superbike!”.
Parole come “fenomeno”, nel suo caso vanno subito a braccetto con “fuori di testa”, “completamente ubriaco”, “strafatto” o peggio: “bruciato dalle droghe”.
Una vita che a vederla oggi, di romantico ha ben poco e di epico solo le sue battaglie in pista. Poca cosa in confronto ai 48 anni vissuti e finiti proprio ieri, dopo qualche cura palliativa, a causa di una malattia.

Dal 1997 aveva dichiarato dipendenza da alcool e droghe.

Dal ’97 aveva ammesso la sua dipendenza all’alcool e alle droghe. Non che fosse un mistero, purtroppo.
Era approdato alla Superbike nel 1994 dopo essersi fatto notare come wild car a Sugo in Giappone, in mezzo ad uno stuolo di agguerriti piloti kamikaze, ed in Australia a Phillip Island, sulla pista di casa. Terzo nella prima manche, poi primo nella seconda manche.

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Rob Muzzy patron del Team Kawasaki di Superbike, lo assume subito. Muzzy in casa ha già un “problema”, si chiama Scott Russell. Talento e strafottenza, vita da rockstar. Uno che l’anno prima, durante una festa, si ritrovò in una vasca idromassaggio assieme ad una ragazza che morì per un malore.
Così dissero le cronache, anche se più di qualcuno insinuo’ che le fosse stata fatale un overdose.

Sia come sia, arriva Gobert, qualcuno fa l’imbocca al lupo al buon Muzzy, che ricordiamolo, è uno che di piloti se ne intende e che di mondiali AMA e SBK ne ha vinti parecchi. Lawson, Rainey, Chandler, Russell, Gobert, Slight, Duhamel, sono passati da lui, tanto per dire…

Nel 1996 Kawasaki lascia il team Muzzy per fare il suo team ufficiale.

Kawasaki ci metterà 20 anni a vincere un mondiale dopo quello del ’93 conquistato da Russell. I giapponesi lasciano il Team Muzzy nel 96 per farsi una propria squadra ufficiale.
Lo stesso Muzzy dirà di Gobert: “era capace di fare cose su una moto che non ho più visto fare a nessun’altro” ma aggiunse anche di come lui non si spendesse minimamente per  sviluppare la moto. Lui le aggirava le difficolta’, si adattava, guidava sopra i problemi .
Anche il suo approccio con i meccanici non era dei migliori: “…E’ sempre difficile lavorare con qualcuno che ti dice che sei uno stupido stronzo…” dirà Muzzy.

Finita Ła storia con Kawasaki GObert approda al motomondiale 500

Finisce cosi la storia con Kawasaki, e Gobert approda al motomondiale, classe 500, Team Suzuki.
La moto che fu di Schwantz ora è sua. L’esordio non è dei migliori, gira anche piuttosto forte, ma poi torna ai box, scende dalla moto e alla schiera di ingegneri giapponesi che attendono ansiosi ed in religioso silenzio sue indicazioni tecniche, lui si limita a chiedere perché non ci sia il frigo con la birra ghiacciata e la gabbia con una ragazza in costume che balla.
A momenti a quelli non viene un colpo.


Il Team Manager Suzuki Garry Taylor, dopo averle viste e provate tutte, arriva al punto di portarlo da Uri Geller, fenomeno paranormale che piegava oggetti di metallo con la sola forza del pensiero.
Ci crediate o no, Geller aveva una personalità ed un carisma incredibili, e doveva convincere Gobert che con la sola forza di volontà poteva abbandonare le sue dipendenze e concentrarsi sul suo lavoro.
L’incontro finisce con lui che esce dalla stanza in cui era chiuso con il fenomeno paranormale, definendolo: “un coglione”.

Fu la stessa Suzuki a chiedere il test antidoping, per disperazione.

Chiunque conosca i Giapponesi, ed il loro spiccato senso dell’onore e della vergogna, potrà solo lontanamente immaginare a che livello di sopportazione fossero arrivati, per spingersi a chiedere un test antidoping sul proprio pilota.
Test che avrà esito positivo, che consegnerà agli annali il primo caso di doping nel motociclismo e sancira’ la fine del rapporto lavorativo fra Gobert e la Suzuki.

Inizia la salita per l’Uomo Gobert.

Da lì in poi qualche comparsata nel mondiale, con moto poco competitive, ma che lui porta anche a punti. Quindi finisce a correre in America, campionato AMA Superbike. Il pilota c’è, ma l’Uomo, Gobert rimane lo stesso: emoziona in pista, ma è impossibile da gestire fuori.
Diventa sempre più strafottente, sparisce nei periodi fra una gara e l’altra, pare vada nelle Filippine a bere e drogarsi per poi tornare imbolsito, sfatto, e dichiarare: “Tranquilli, voglio solo vedere quanto posso ingrassare pur continuando a vincere”.
E sono ancora drug test, storiaccie di urina non sua, da sostituire al momento dei test. Cosi’ in qualche modo arriva fino al 2000.

Con la Bimota torna a far sognare in Superbike.

La Bimota e Virginio Ferrari gli affidano una moto, la SB8K, col bicilindrico Suzuki 1000.
Gobert, ormai segnato dalla sua vita sregolata, sulla pista di Phillip Island, a casa sua, scrive una delle pagine più belle del motociclismo. Sale in sella alla Bimota  appena tornata al mondiale Superbike piena di speranze, e con uno sponsor che si accaparra il numero 501, ma che ancora non appare sulle carene della moto.


Ferrari confida in Gobert e nella sua ripresa fisica dopo una dieta ferrea. In Australia comincia a piovere, Gobert è undicesimo e parte in terza fila. Sotto la pioggia dopo il primo giro è in testa. Corser cade nel tentativo di inseguirlo, Borja, secondo dietro di lui ha già preso 9 secondi di distacco!
Al secondo giro il distacco passa a 21 secondi.
Al terzo giro, diventano 24 secondi.
Al settimo giro, Borja, ancora secondo ma ormai a 45 secondi di distacco, cade, mentre Gobert inizia i doppiaggi.
Dopo un terzo di gara, Gobert è primo con 52 secondi su Pedercini che lo insegue su una Ducati privata, e con 55 secondi su Fogarty. A quel punto smette di piovere, la pista mostra una traiettoria che comincia ad asciugarsi e Fogarty comincia a recuperare. Si porta a 46 secondi da Gobert, ma poi ricomincia a piovere.


L’australiano su Bimota comincia ad amministrare il suo vantaggio, mentre Fogarty tenta un disperato inseguimento.
Vince Gobert, che taglierà il traguardo  29 secondi prima di Fogarty, secondo e ben 41 secondi prima di Guareschi, terzo su Yamaha.

Finisce lì la sua storia di pilota.

Finirà lì, la bella storia di Gobert, un’altro lampo nella tempesta della sua vita.
Bimota si ritirerà a metà stagione per difficoltà finanziarie.
Gobert continuerà nella sua autodistruzione.


Finirà in carcere, per aver rapinato pochi dollari ad una signora e ad un anziano fuori da un supermercato a Surfer Paradise.
Poi con le anche rotte, dopo una rissa, colpito a colpi di mazza da baseball, fuori da un bar.
Il fratello arriverà a promuovere delle attività pubbliche, per recuperarlo dalla sua tossicodipendenza.
Lui in tribunale dopo l’ennesimo arresto, mentre rispondeva stordito e strafottente, d’un tratto ebbe un sussulto d’orgoglio.
Quando il giudice domando’: “Che lavoro fa, signor Gobert?”
In quello stesso istante appari un largo sorriso sul suo viso quando rispose: “Il pilota professionista, signor giudice, il pilota professionista!”
Poi la malattia.
E noi qui, a ricordare il più cristallino talento del motociclismo.